Da qualche tempo in Italia è partita una vera e propria campagna denigratoria contro i videogiochi violenti. Nonostante decine di studi internazionali dei più importanti istituti scientifici abbiano rilevato che non è vero che giocare ad un videogame violento susciti violenza, anzi spesso è il contrario, molti media italiani continuano a dare addosso a questa categoria, finendo con il fare di tutta l’erba un fascio, e parlando molto spesso a sproposito.
Stimate trasmissioni tv come Striscia la Notizia o Unomattina, oppure importanti testate nazionali come il Corriere della Sera, negli ultimi tempi hanno dato spazio a sedicenti esperti, che con ogni probabilità non hanno mai giocato ad un videogioco in vita loro, per dire che i videogiochi violenti sono il male assoluto e vanno vietati perché poi ci ritroviamo come in America con gli adolescenti che imbracciano un fucile e sparano sui compagni di scuola. Nonostante la libertà di opinione sia sacrosanta, a nostro avviso non si è fatto un buon giornalismo dato che in quei casi si è violato proprio l’ABC della professione: non si è lasciato spazio al contraddittorio (l’unica che ci ha provato è stata Unomattina telefonando allo Youtuber Favj, preso alla sprovvista che, a differenza degli ospiti in studio, non era preparato e non sapeva cosa rispondere), e soprattutto si è dato spazio a persone che non hanno verificato le proprie fonti ed hanno parlato senza conoscere l’argomento.
Al centro del dibattito c’è stato il videogioco Grand Theft Auto V, noto anche come GTA 5, titolo effettivamente caricato di una certa dose di violenza denotata da sparatorie, pugni e auto rubate. I benpensanti, che sicuramente non hanno mai giocato a questo titolo, hanno paura che dei ragazzini rischiano poi di voler emulare quello che vedono nello schermo, senza tener conto di alcuni aspetti fondamentali. Il primo è, come detto, che le ricerche scientifiche effettuate all’estero hanno dimostrato che non è affatto vero che le persone che giocano ai videogiochi violenti poi emulano quei comportamenti ma che anzi, spesso si sfogano in maniera virtuale ed evitano così di sfogare la propria rabbia nella vita reale. E poi non tengono conto di un aspetto fondamentale, sottolineato anche dall’Aesvi (Associazione degli Editori di Videogiochi italiani), in un comunicato ufficiale: il PEGI.
Il PEGI è la Pan European Game Information, una classificazione che viene assegnata ad ogni videogioco prima di entrare in commercio in Europa, e che assegna un’età minima per la quale si può vendere un videogioco. Se così per esempio un videogioco sul calcio è classificato PEGI 3, cioè ci possono giocare tutti perché è vendibile dai 3 anni in su, uno come GTA che contiene parolacce, violenza e sesso, è classificato PEGI 18, cioè che ci possono giocare soltanto i maggiorenni. Inoltre le nuove console di gioco sono dotate di un sistema di parental control che un genitore attento può attivare per evitare che un gioco classificato PEGI 18 possa essere giocato da un ragazzino di 15 anni.
Detto questo, risultano evidenti due aspetti. Il primo è che la preoccupazione che un adolescente possa venire in contatto con i videogiochi violenti è sbagliata perché, per legge, ci possono giocare solo i maggiorenni. Il secondo è che se un ragazzino ci dovesse giocare, le responsabilità sono in primis del rivenditore che gliel’ha venduto, contravvenendo ai dettami di legge, e poi è soprattutto del suo genitore che gliel’ha comprato, o ha permesso che lo comprasse. Proprio quel genitore che poi va in tv, o sui giornali, e si lamenta dei videogiochi violenti.